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Channel: Julia Timoshenko – Pagina 204 – eurasia-rivista.org
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La giusta misura. Per una metapolitica eurasiatista

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Vi sono ben pochi dubbi che il tratto distintivo del liberismo consista nel considerare la società come un’entità non diversa dalla semplice somma dei suoi membri (in quanto si esclude che il tutto sia altro che la somma delle parti che lo compongono) e che per questo motivo «l’analisi liberale del fatto sociale si basa […] o sull’approccio contrattuale (Locke) o sul ricorso alla mano invisibile (Smith), o sull’idea di un ordine spontaneo, non subordinato a un qualche disegno (Hayek)». (1) In particolare, per il teorico viennese, la società è una mera astrazione, reale è solo l’individuo, vale a dire l’individuo “presociale”, privo di ogni appartenenza e di qualsiasi relazione identitaria. Von Hayek ritiene che una società complessa come quella moderna possa funzionare soltanto se si affida al mercato, dato che la «nostra civiltà dipende, non solo nella sua origine, ma anche nella sua preservazione, da quello che può venir descritto unicamente come l’ordine esteso della cooperazione umana, ma che viene più comunemente […] conosciuto come capitalismo». (2). Difficilmente si potrebbero sintetizzare meglio le premesse su cui si basa il pensiero degli esponenti della scuola marginalista austriaca (cioè, oltre a Friedrich von Hayek, Carl Menger e Ludwig von Mises), nonché quello dei cosiddetti “anarcocapitalisti” (come, ad esempio, Murray Newton Rothbard). Infatti, nella frase sopraccitata, non solo si sostiene implicitamente che la civiltà occidentale è superiore a qualsiasi altra civiltà (poiché è l’unica in cui vi sia autentica cooperazione umana, che non differisce da ciò che si è soliti denominare capitalismo), ma si afferma esplicitamente che il mercato è a fondamento della civiltà occidentale (evidentemente senza che vi possa essere alcuna differenza tra civiltà europea e civiltà occidentale). Ne consegue che non solo l’attuale società di mercato angloamericana sarebbe la forma più alta di civiltà che sia mai esistita – una conclusione inevitabile una volta che si siano accettati determinati presupposti – ma che il mercato sarebbe un ordine spontaneo, in un certo senso “naturale”, mentre ogni forma di “costruttivismo” potrebbe andar bene tutt’al più per una società tribale e l’idea di giustizia sociale altro non sarebbe che un’espressione priva di senso, che deriverebbe da “ubbie” dei cacciatori paleolitici. Ciononostante – anche a prescindere dal fatto che non si può certo ritenere che il mercato sia un sistema in grado di regolarsi solo perché «l’uomo non è e non sarà mai il padrone del proprio destino: la sua stessa ragione progredisce sempre portandolo verso l’ignoto e l’imprevisto, dove egli impara nuove cose» – (3) gli studi scientifici della storia (e della antropologia) sociale ed economica, hanno dimostrato che la formazione di uno spazio economico autonomo, lungi dall’essere “naturale”, è frutto di un lungo e complesso processo storico. Tanto è vero che Louis Dumont sostiene: «Con il mondo moderno è avvenuta una rivoluzione […] E’ solo a partire da quel momento che si può tracciare una distinzione chiara tra ciò che chiamiamo “politico” e ciò che chiamiamo “economico”. Si tratta di una distinzione che le società tradizionali non conoscevano». (4). Per questo motivo, Luigi Ruggiu può affermare che «è solo a prezzo di arbitrarie interpretazioni che i fatti economici delle società precapitaliste possono essere riuniti assieme per formare un sistema economico in qualche modo autosufficiente, con proprie leggi e specifici comportamenti, riportabili nell’alveo dell’agire economico». (5) Di fatto, nelle società primitive e in quelle storiche del mondo antico, il sistema delle relazioni economiche è «non solo diversamente organizzato rispetto alle relazioni di mercato, ma anche vive al di fuori della stessa forma economica. Sono forme metaeconomiche quali la religione, la politica o le relazioni comunitarie che organizzano i fatti economici, imponendo ad essi le proprie leggi e le proprie finalità complessive». (6) E sono gli studi di Karl Polanyi che attestano non solo che l’antica Atene, anche se le relazioni commerciali ed una certa diffusione della moneta avevano portato ad uno sviluppo considerevole della sfera economica, aveva esteso la direzione politica a tutti gli ambiti dell’attività economica, ma che con l’avvento della società di mercato, invece di essere l’economia incastonata nelle relazioni sociali, sono le relazioni sociali ad essere incastonate nelle realazioni economiche. (7) Si tratta di “dati duri” delle scienze dell’uomo, contro i quali non può non “infrangersi” il tentativo dei teorici liberisti di far apparire come “naturale” e spontaneo ciò che in realtà è “artificiale” e storico (e, per Polanyi la società di mercato costituisce addirittura un’eccezione dal punto di vista storico). Non è comunque una novità che i liberisti abbiano sempre avuto difficoltà ad intepretare gli eventi storici. Oltre a mettere in discussione i costi umani e sociali della “grande trasformazione”, cioè della rivoluzione industriale, e alla difficoltà di interpretare la crisi del 1929 e le drammatiche conseguenze che ebbe non solo per gli Stati Uniti, ma per il mondo intero (e, in particolare, per la Germania), von Hayek, negli anni Quaranta del secolo scorso, non esitò a prevedere, in Road to Serfdom, che la regolamentazione del mercato da parte dello Stato avrebbe causato la distruzione della democrazia politica e delle libertà personali. E’ altresì degno di nota che egli abbia espresso questi giudizi nell’anno (1944) in cui venne pubblicato il libro di Polanyi La grande trasformazione, opera nella quale il grande studioso di origine ungherese confuta la tesi della determinazione economica della società e della storia, ovvero proprio la tesi difesa da von Hayek in Road to Serfdom, dato che quest’opera «si può considerare […] come un’estrapolazione diretta del determinismo economico». (8) Del resto, von Hayek, allorché afferma che, se si vuole perseguire un fine comune, «tutta l’organizzazione per la diffusione della cultura, la scuola e la stampa, la radio e il cinema, tutto verrà usato esclusivamente per diffondere quelle opinioni che – vere o false che siano – valgano a rafforzare la fede nella giustizia delle decisioni prese dall’autorità», (9) sembra inconsapevolmente descrivere proprio quel “pensiero unico” che contraddistingue l’aberrante globalizzazione “turbocapitalista” di questi ultimi vent’anni, la “fede nel mercato” avendo sostituito, in Occidente, quasi del tutto, qualsiasi altra “fede politica” (e non soltanto politica). Ma la stessa crescita della macchina statale, come dimostra Polanyi, dipende in gran parte dalla necessità di porre rimedio ai danni causati al tessuto sociale dalla logica di mercato. Perciò non meraviglia che, laddove sia venuta meno la sinergia tra Stato e mercato, che caretterizzava il Welfare, si verifichi una progressiva dissoluzione del legame sociale e le istituzioni politiche tendano a configurarsi come un sottosistema del sistema tecnico-produttivo della potenza predominante. Oppure si assista alla formazione di un Warfare State, come negli Usa (e non si dovrebbe nemmeno ignorare che fu la Seconda guerra mondiale a “rilanciare” l’economia americana, a tal punto che, alla fine della guerra, gli Stati Uniti, in termini economici, erano i padroni del mondo), che garantisce al mercato la potenza necessaria per espandersi e al tempo stesso l’intervento dello Stato, allorquando, ad esempio, il sistema economico minaccia di collassare per il formarsi di gigantesche “bolle finanziarie”, ossia per la divaricazione tra “economia reale” e finanza. Osserva giustamente de Benoist che «l’idea secondo cui l’uomo agisce liberamente e razionalmente sul mercato non è altro che un postulato utopico, giacché i fatti economici non sono mai autonomi, bensì relativi a un determinato contesto culturale e sociale»; ed aggiunge: «Non esiste una razionalità economica innata, essa è il prodotto di una ben determinata elaborazione storico-sociale». (10) L’ipotesi liberale, che suppone che l’individuo sia un tutto completo a sé stante, è quindi priva di fondamento storico ed antropologico, utile tutt’al più per elaborare modelli economici, ma non in grado di rendere conto del “concreto” agire dell’uomo, che non è mai determinato solo da fattori economici o spiegabile solo in base a fatti economici. Secondo Pierre Rosanavallon «lo Stato nazionale e il mercato rimandano ad una medesima forma di socializzazione degli individui nello spazio. Sono pensabili solo nel contesto di una società atomizzata nella quale l’individuo è cosiderato autonomo». (11) Vale a dire che lo si considera tale, sebbene non lo sia completamente, poiché, perfino in una società atomizzata, cioè in una società di mercato, l’individuo è pur sempre embedded in una miriade di relazioni sociali. Quel che cambia è la “natura” di tali relazioni, in quanto vengono a dipendere da un sistema economico che, colonizzando tutti i mondi vitali, minaccia di trasformare l’individuo in un atomo sociale, del tutto in balia di forze che in alcun modo può controllare. Ma la concezione liberale comporta anche una pericolosa mistificazione del politico, considerato, in definitiva, qualcosa di “negativo”, che ostacola la “cooperazione umana”, ovvero, per von Hayek e, in generale, per i liberali, il “libero mercato”. Il che pressuppone non solo che non vi sia alcuna differenza tra il politico e lo Stato – e gli anarcocapitalisti, che pensano che lo Stato sia da abolire, o meglio da privatizzare totalmente, assimilano il politico ad un insieme di regole liberamente accettate dai membri di un’associazione, qualunque essa sia – ma che il mercato, in quanto capace di autoregolarsi senza l’interferenza dello Stato (cioè del politico), potrebbe creare le condizioni per arrivare ad una definitiva scomparsa della guerra. Nondimeno, per quanto sia facile constatare che la storia del Novecento e soprattutto quella recente ha “falsificato” definitivamente siffatta “congettura”, la critica della concezione liberale del politico non può ignorare l’esigenza di chiedersi come sia possibile che un ordinamento sociale sia fondato sul rapporto tra unità politica e individualità personale.
E’ stato lo stesso Carl Schmitt ad affermare: «Io fondo lo Stato sul politico e non il politico sullo Stato […] Ciò che fa lo Stato è politico». (12) Per il filosofo tedesco del diritto, infatti, l’essenza del politico consiste nella distinzione/opposizione “amico versus nemico”; distinzione/opposizione che articola l’agire degli uomini in quanto animali politici (si badi, non “animali sociali”). In sostanza, ciò significa che il politico è una “dimensione” costitutiva dell’agire dell’uomo, un destino dell’uomo, e che di conseguenza il conflitto tra gli uomini non lo si può eliminare. E Schmitt non solo mostra che, quando l’economia sembra prevalere rispetto alla politica, in realtà si è in presenza di una politica mistificata e mistificante, ma anche che tale mistificazione fa sì che il “nemico” (cioè, lo justus hostis, il nemico pubblico, da non confondere con l’inimicus, il nemico privato) venga concepito come un criminale o un “folle”: «Proclamare il concetto di umanità, richiamarsi all’umanità, monopolizzare questa parola: tutto ciò potrebbe manifestare la terribile pretesa che al nemico va tolta la qualità di uomo, che esso deve essere dichiarato “hors-la-loi” e “hors-l’humanité” e quindi che la guerra deve essere portata fino all’estrema inumanità». (13) L’amore “astratto” per l’umanità si rivela allora veicolo di una volontà di potenza “il-limitata”, che vuole cioè illimitatamente accrescere la propria potenza e che non esita a strumentalizzare i “diritti umani” per giustificare un sistema che non riconosce i diritti sociali e per legittimare le cosiddette “guerre umanitarie”, che annientano gli uomini “in carne ed ossa”. Conseguenza paradossale, ma inevitabile, dell’assimilazione del politico al “negativo” che contraddistingue l’universalismo individualistico liberale, dato che crea, «cristallizzandosi all’interno della vita politica, le condizioni di una trasformazione radicale della guerra, che [dopo il tramonto dello jus publicum europaeum] si troverà ad essere condannata sul piano del principio e nel contempo notevolmente aggravata sul piano della prassi». (14) Tutto ciò prova che il mercato, ben lungi dal poter eliminare il conflitto tra i diversi gruppi umani (e la guerra non è altro, secondo la famosa definizione di von Clausewitz, che il proseguimento della politica con altri mezzi), proprio in quanto si vuole indipendente da ogni “ordine politico”, ovverosia in quanto pretende di autoregolarsi, si configura, surrettiziamente, esso stesso come espressione della volontà politica di un particolare gruppo sociale e/o di una particolare “potenza”. Laddove cioè si vuole che siano le ragioni del mercato a “decidere”, e non il politico, vi è sempre la logica politica del dominio sociale e/o dell’imperialismo economico (in passato, l’imperialismo inglese, oggi quello americano, ben più pericoloso e “totalizzante”). L’aspetto politico della “decisione” lo si può “rimuovere”, ma non è possibile cancellarlo. Competizione e concorrenza, possono riguardare certi ambiti sociali o designare i meccanismi mediante i quali un sistema sociale e/o la comunità internazionale “istituzionalizzano” il conflitto. Ma è la “volontà politica” che fonda un determinato ordine, non viceversa. Vale a dire che la la “volontà politica” è, come direbbero gli Scolastici, causa essendi e non semplice causa efficiente di un ordine, quasi che esso, una volta posto in essere, fosse totalmente “auto-nomo”. Né ciò sembra essere senza relazione con la nota tesi di Carl Schmitt secondo cui sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione. Tuttavia, se Schimtt critica la concezione del diritto come norma e difende il “decisionismo”, in nome non di un’astratta ideologia bensì del realismo politico, egli, nel suo opus magnum, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello Jus publicum Europaum, difende pure la tesi del diritto come istituzione, come «unità di ordinamento (Ordnung) e localizzazione (Ortung)». (15) D’altra parte, l’appropriazione della terra e l’instaurazione di un ordine si configurano come un “taglio” (ossia una “de-cisione”) che avviene mediante la “de-limitazione” di uno spazio, sebbene nomos, secondo Schmitt, denoti, oltre all’appropriazione (Nahme) e all’atto performativo della denominazione (Name) della terra, sia l’azione del dividere e dello spartire (che concerne la giustizia distributiva) sia il coltivare e il produrre. Vi è però, ad avviso di Schmitt, una sorta di gerarchia tra questi tre processi (16) (benché tutt’e tre siano costitutivi di ogni ordinamento sociale e giuridico): «Ogni ordinamento fondamentale è un ordinamento spaziale. Quando si parla della costituzione di un paese o di un continente, ci si riferisce al suo ordinamento fondamentale, al suo nomos. Ora, il vero, autentico ordinamento fondamentale si basa, nella sua essenza, su determinati confini e delimitazioni spaziali, su determinate misure e su una determinata spartizione della terra. Al principio di ogni grande epoca c’è quindi una grande conquista di terra». (17) Sotto questo profilo, non si può non rilevare il nesso tra il pensiero di Schmitt e la conferenza di Martin Heidegger Costruire, abitare, pensare. (18) Un nesso che è perlomeno altrettanto rilevante di quello che Karl Löwith critica aspramente, ossia quello tra il decisionismo politico di Schmitt e la filosofia heideggeriana del tempo e della “fatticità storica”, (19) dato che, per Löwith, Schmitt difende una forma di nichilismo, considerando come unico scopo dell’uomo la guerra, «l’essere pronti al nulla, cioè alla morte [esattamente come l’heideggeriano “essere per la morte” in Essere e tempo] intesa come sacrificio della vita per uno Stato, il cui “presupposto”, è già la politica decisiva». (20) Peraltro, anche nel caso che le obiezioni di Löwith (indubbiamente non esenti da gravi pregiudizi ideologici, anche perché Löwith, nell’interpretare sia il pensiero di Heideggger che quello di Schmitt, privilegia i dati biografici, in quanto questi ultimi sarebbero, a suo parere, di fondamentale importanza per comprendere il pensiero di un filosofo) non si considerino del tutto infondate, pare lecito ritenere che gli studi di Schmitt sul nomos della terra, evidenziando la connessione tra appropriazione, distribuzione e produzione, si possano intendere anche come una convincente risposta ai suoi critici (Löwith incluso). Inoltre, da un lato, si deve osservare che la filosofia di Heidegger non mira, in primo luogo, a comprendere l’essere dell’Esserci (ossia non è una antropologia filosofica né una forma di esistenzialismo), bensì l’Essere in quanto differente dall’ente (la differenza ontologica), al fine di distruggere l’ontoteologia del pensiero metafisico (a cui Heidegger imputa la responsabilità dell’oblio della differenza tra Essere ed ente), interrogando l’inizio stesso della filosofia (e della metafisica) nell’epoca della fine della filosofia. (21) Dall’altro, si deve tener conto che nelle opere di Schmitt (che definì sempre sé stesso “solo” come un giurista) non vi è una esplicita analisi filosofica dell’essere dell’uomo, nonostante che si possa affermare che egli condivide (proprio come Tucidide, Machiavelli ed Hobbes) l’idea che la natura umana sia “opaca” e strutturalmente “negativa”. Un “pessimismo antropologico” che conduce Schmitt a valorizzare il katechon come “figura chiave” per la comprensione della funzione politica. Al riguardo, Giuseppe Antonio Di Marco afferma che il Leviatano di Hobbes, ossia l’uomo artificiale, anche se trascende «la semplice somma delle volontà dei singoli artefici, […] rimane pur sempre un artificio e quindi non può portare dentro di sé la sostanza dell’infinità finita, come il dio terreno hegeliano [, ovvero,] in quanto artificio, non può dar luogo a un’autentica […] totalità [dacché] un intero che può essere reso presente solo dalla rappresentanza, cioè da un artificio, può essere usato e distrutto. […] Viceversa, il dio terreno di Hegel è in grado di presentificare, e non solo di rappresentare, l’intero, per cui l’artificiale della macchina viene compreso entro la totalità e così la tendenza disgregatrice viene frenata». (22) Perciò, «Hegel accanto a Savigny [entrambi sostenitori del diritto come istituzione], anche se con qualche differenza, ha la funzione di frenatore, di “katechon” rispetto [al processo di] distruzione dello jus publicum europaeum». (23) D’altronde, pare essenziale per la comprensione del significato del politico il fatto che la volontà di abitare una terra e di darsi un ordinamento concreto, non possa non radicarsi in un contesto storico-culturale e non presupporre un orizzonte di senso condiviso, mediato dal linguaggio (e si deve pur tener presnte che nel mondo antico l’atto mediante il quale un popolo si appropria di una terra o fonda una città è un rito, cioè ha sempre un carattere sacrale). (24) Ma non è forse la stessa concezione secondo cui l’essenza del politico consiste nella contrapposizione tra amico e nemico, ossia nel conflitto – tanto da poter pensare che la politica sia la prosecuzione della guerra con altri mezzi – che mostra l’esigenza di prendere in considerazione il “sostrato antropologico” del politico? (Un “sostrato” che il liberalismo “riduce” all’individuo “astratto”, non solo nel senso hegeliano del termine – che significa “irrelato” o “isolato” – ma anche “astratto” in quanto astrazione, o meglio “finzione” dell’economia politica, benché si tratti di una “finzione produttiva”, giacché l’individuo “isolato” è appunto “prodotto” dalla società di mercato, come prova la celebre analisi marxiana di Robinson Crusoe, il personaggio dell’omonimo romanzo di Daniel De Foe, il quale si comporta come un normale borghese che crede nella “mano invisibile” del mercato e nei meccanismi “naturali” dei processi produttivi, quasi che non vi fosse alcuna differenza tra società primitive o antiche e quelle moderne).
Se l’agire politico è “proprio” dell’uomo, dell’animale (politico) razionale, allora non è affatto strano che Platone veda nello Stato il “grande uomo” e l’analogia tra la virtù individuale e quella dello Stato sia alla base dell’indagine sulla giustizia nella Repubblica, un dialogo in cui il conflitto tra città e all’interno delle singole città non appare “altro” dal conflitto che agita l’anima dell’uomo, ché dalla corruzione di quest’ultima si origina la guerra. E il conflitto, sia come polemos che come stasis (la guerra civile), è, per Platone, il necessario “presupposto” della riflessione sul politico. La stessa condanna a morte di Socrate non è comprensibile senza la terribile guerra del Peloponesso, in cui «per dirla con le parole di chi volle consegnare a perenne memoria quel tempo e gli avvenimenti che lo segnarono, la morte imperò “con i suoi innumeri volti”, ed ogni tradimento, ogni spergiuro, ogni nefandezza, perpetrati con mano pronta e felice e con mente solerte, costituirono titolo d’onore. L’avidità del potere […] e tutte quelle tendenze […] che per solito vengono tenute a bada, dimostrarono chiaramente che cosa fosse la natura umana». (25). Epperò, Platone, sebbene abbia ben presenti gli impulsi sinistri della natura umana, non può fare a meno «di guardare le cose a distanza», ritenendo che il compito del filosofo consista ormai in una nuova fondazione dell’uomo e dello Stato insieme. (26) Il problema che la Repubblica deve risolvere concerne l’ antropologia politica, non è un problema di “ingegneria costituzionale”, come invece pensa Aristotele, la cui intepretazione della filosofia platonica è all’origine dell’errata caratterizzazione di Platone come “utopista”. Platone cioè comprende che la krisis della polis deriva dalla mancanza di un principio di bene comune e che è irrealistico pensare di poter cambiare la “forma” della polis, senza cambiare i cittadini. E’ allora evidente che non è affatto una “forzatura ermeneutica” di Massimo Cacciari, considerare Platone come un pensatore politico “realista”, dacché la Repubblica non può rappresentare una polis completamente “sana” e in nessun modo si può interpretare la filosofia platonica come «pretesa di eliminare astrattamente la contraddittorietà del politico nell’unità dell’idea»: come potrebbe una costituzione risolvere quel conflitto «dell’anima, che è l’anima», se anche l’anima che si eleva fino all’iperuranio, prima o poi, si appesantisce, perde le ali e precipita a terra di nuovo (Fedro 248b-c)?. Innegabile invece che la politeia «il prodotto massimo dell’”arte politica”, non mantiene in salute ciò che è già sano, ma permette di “curare” (ha cura di) ciò che ha perduto la salute». (27) Nessuna “ingenua” scissione tra essere e dover essere, nessuna utopia, dunque, semmai “a-topia”, discorso fuori dall’ordinario sul politico, ossia rigorosamente “meta-politico”, ma al tempo stesso del tutto disincantato: polis vi è solo laddove è necessario vi sia techne politiké. Quando, in illo tempore, è il Dio a governare, nessuna techne politiké è necessaria. Ma allora non c’è neanche alcuna polis né alcun conflitto (Politico 271e). Tuttavia, al tempo in cui scrive Platone, non solo non vi è più la “tradizione”, il mito come “parola vera” che possa “ordinare” la città, ma perfino la parola dei “sapienti” non può più persuadere “i mortali a due teste”. La Dike dei “sapienti” può essere sì ancora “misura” dell’ordine divino del mondo, ma non è più sufficiente a “misurare” il mondo degli uomini. La stessa molteplicità dei “discorsi intorno alla natura” si ritiene esser segno che non è possibile risolvere stabilmente il conflitto che “cova” dentro ogni uomo e in ogni comunità, mediante quella “misura cosmica” sulla quale – per Parmenide o Pitagora (ma pure per il “democratico” Empdocle), “sapienti” e politici ad un tempo – (28) doveva basarsi il “buon governo” della città, dacché essa non può più valere “immediatamente” per il mondo degli uomini. Certamente anche i Presocratici non ignorano il conflitto ed Eraclito, come si sa, giunge addirittura ad affermare che «pólemos di tutte le cose è padre, di tutto poi è re», (29) benché già Anassimandro mostri il volto filosofico del “dissidio”. In particolare, nel detto di Anassimandro, che è conosciuto come la più antica parola della tradizione filosofica europea (nel suo testo abituale: «Là da dove le cose hanno il loro nascimento, debbono anche andare a finire, secondo la necessità. Esse infatti debbono fare ammenda ed essere giudicate per la loro ingiustizia [adikias], secondo l’ordine del tempo»), secondo Heidegger, «parla il molteplice dell’ente nel suo insieme. Ma dell’ente non fanno parte soltanto le cose. E le cose non sono affatto soltanto le cose di natura. Anche gli uomini e le cose da essi prodotte, le situazioni e le circostanze derivanti dal fare e dal tralasciare umani fanno parte dell’ente». (30) Non si deve però equivocare, dato che «”le cose della natura” non avevano il significato che possiedono oggi. Nel suo significato originario, la physis non costituiva un mondo separato e contrapposto al mondo umano, le leggi della natura e le leggi degli uomini non erano pensate come rispondenti a differenti criteri». La soluzione di continuità si manifesta solo con «la sofistica che interrompe questa visione unitaria, e nettamente distingue i due mondi; Socrate approfondisce il solco, facendo dell’uomo un ente a sé: sposta il punto focale dalla natura all’uomo [e] nel suo “sapere di non sapere” indica la via del sapere». (31) Non solo. Se la dialettica di Zenone e (forse) anche quella di Gorgia hanno un significato sapienziale, la sofistica degenera rapidamente in eristica, si muta in un agonismo «cerebrale, sottile, sleale». (32) Da qui e dalla guerra tra Greci, che dovrebbero essere amici (Rep. 470c), e dalla lotta delle fazioni all’interno delle città, muove il discorso di Platone. La “sapienza” arcaica ora deve essere riformulata, in modo che la “misura” sia, come aveva indicato Socrate, il “discorso vero”, in grado di “convincere” e di “educare” l’anima. Ma per ottenere ciò, bisogna «ricorrere a medici molto più di prima» (Rep. 373d) e il “custode” deve essere filosofo e uomo di guerra (Rep. 525b8 e 543a5). E persino i “filosofi-guardiani” «dovranno fare esperienza della stásis in sé prima di amministrare qualsiasi pólemos», per “domare”, senza poterla mai debellare del tutto, la “doppiezza” anche della loro anima, ché «la fonte della guerra è quella stessa delle passioni e degli appetiti, la stessa dei massimi mali privati e pubblici». (33) Il realismo tucidideo non è affatto “rimosso”, ma “com-preso” nel discorso di Platone, che non perde mai di vista la “necessità” della guerra – tanto da “giustificare” che si distruggano i nemici, prima che siano essi a muovere guerra (Rep. 375c) – perché, se non si sa “dar forma” al conflitto, o si conduce la città alla rovina o si innesca una catena di violenze interne e di guerre senza fine. Non è “pensabile” allora che vi sia “vera polis” senza conflitto tra gli uomini: «la stessa idea di polis [ed è “decisivo” che, appunto, si tratti dell’idea di polis], in quanto polis, implica una molteplicità di appetiti, implica uno stato di guerra». (34) L’idea della polis, proprio perché partecipa del Bene, non può essere essa stessa il Bene, né da essa si può “dedurre” una particolare costituzione, per quanto debba misurare le costituzioni esistenti, “orientare” il politico, se si ha in vista la “salute” dell’intera comunità. Sia che si legga la Repubblica secondo la prospettiva di Colli, (35) sia che si condivida la tesi che vede nelle “dottrine non scritte” di Platone la chiave per decifrare l’autentico senso dei dialoghi del filosofo ateniese (è la tesi della scuola di Tubinga, ma anche di Giovanni Reale e degli studiosi che si ispirano al suo insegnamento), (36) non v’è dubbio quindi che «la costituzione platonica non deduce affatto astrattamente dal Principio l’utopia di una polis-tutt’una, ma si interroga a quali condizioni sia pensabile una polis la cui molteplicità non sia sempre anche guerra civile in potenza». (37) Se tutta la realtà risulta da una mescolanza di limite e illimite, allora il politico deve saper “uni-ficare” i molti, non in una astratta unità, ma impedendo che la “dis-misura” distrugga la città o, peggio ancora, la muti in altro, ovvero la “governino” ingiustizia e hybris. Insomma, Platone ha sempre presente che la funzione politica è, in primo luogo, il katechon che “trattiene il negativo” all’interno della città, limitandone gli “appetiti”. Anche se il politico non necessariamente “partecipa” dell’idea di giustizia, non è impossibile quindi che esso sia conforme all’ordine del cosmo; e ciò si può avverare, a giudizio di Platone, mediante l’istituzione di un “ordine funzionale” tripartito (e poco importa, sotto questo punto di vista, che egli divida-la società in tre classi distinte, ma assai più importante è che si tratti di tre funzioni distinte e ordinate gerarchicamente), che non si discosta dall’ideologia trifunzionale indoeruopea descritta da Dumézil. Ovvero il politico può partecipare dell’idea di giustizia «se, con una strategia educativa di cui l’intera comunità è agente, i desideri “signorili” e aggressivi di autoaffermazione del gruppo combattente, [una volta] posto al servizo dell’élite intellettuale dei “filosofi” al potere, vengono indirizzati verso finalità collettive, in modo che essi trovino soddisfazione e riconoscimento da parte della società politica nel suo insieme». (38) Strategia educativa ma anche (e soprattutto) “veritativa” – dacché è la “filo-sofia” che ha il compito di istituire un circolo virtuoso tra città giusta e cittadini giusti – senza le quali l’agire degli uomini non produce alcun “ordine naturale” – anzi distrugge la comunità, lasciando che una parte possa sopraffare le altre, subordini il bene comune al proprio utile e, per soddisfare gli “appetiti” della moltitudine, che Platone paragona ad un grande animale forte e vorace (Repubblica 493a-c), induca la città ad oltrepassare ogni “con-fine” e ad aggredire chiunque non si sottometta alla sua volontà. Molteplici però sono gli “ordini” possibili ed i modi in cui il limite può “misurare” l’apeiron (l’illimitato), di modo che non vi è contraddizione tra la concezione del politico sostenuta nella Repubblica e quella delle Leggi, in cui Platone traccia il disegno di uno Stato storicamente realizzabile nelle circostanze del suo tempo. In quest’ultima opera, gli elabora «una costituzione mista in cui le forze contrastanti sono ricondotte all’equilibrio, costituzione che aveva il suo antecedente storico nello Stato spartano [nonostante che] la durezza dell’ordinamento spartano [venga] addolcita con l’introduzione di parecchie istituzioni ateniesi». (39) Ma nel XII libro, «quando il lettore meno se lo aspetta, si introduce una magistratura nuova, un consiglio che si riunisce quotidianamente quando le tenebre stanno per cedere al chiarore dell’aurora, e che è composto di uomini che possiedono non solo la retta opinione, ma la scienza». (40) Con la consueta ironia – fraintesa dalla maggior parte dei teorici liberali, che, leggendo i dialoghi platonici con criteri popperiani, vi ravvisano un’ulteriore conferma del “pensiero totalitario” del filosofo ateniese – Platone mostra che le leggi sono necessarie ma non sufficenti, ché la realtà, che sempre “oscilla” tra l’essere e il non essere, è “tutta un’eccezione”. Necessaria allora anche un’istituzione che “decida” per la salvaguardia dell’ordinamento concreto della polis, purché operi secondo “giustizia”, cioè a patto che le sue decisioni abbiano come scopo il bene comune e si “ingranino” nella struttura comunitaria della polis. E l’ultimo dialogo di Platone anticipa, in qualche modo, anche «la posizione di Aristotele, il cui Stato ideale è, appunto, un ideale suppposto nella dimensione storica». (41) Peraltro – anche se «la critica aristotelica [della polis “ideale” di Platone] nasconde l’effettiva drammaticità della politeia platonica e inaugura quel luogo comune per cui essa non sarebbe che una “statua“ artisticamente perfetta, ma non confrontabile con “uomini vivi”» – la politeia di Platone «riguarda una città che si allarga, che s’ingrandisce, che “inventa” bisogni e costumi», (42) ossia quel medesimo fenomeno (mutatis mutandis), che lo Stagirita critica nella sua famosa analisi della crematistica, “vedendo”, benché in un’ottica diversa da quella del suo maestro, ampliarsi “a dismisura” la sfera economica, grazie all’eccezionale sviluppo degli scambi commerciali e ai molteplici impieghi della moneta nell’Atene del IV secolo a. C. Ovviamente Aristotele non condanna lo scambio in quanto tale, che invece pensa possa contribuire a rafforzare la struttura e la coesione sociale, ma ciò che definisce crematistica non naturale (nel senso che non è la “semplice” arte di acquistare beni, ma la techne che ha come scopo l’accumulazione di beni e denaro), dacché altera radicalmente la relazione tra mezzo e fine, considerati come “momenti distinti”, trasformando il mezzo in fine ed il fine in mezzo, senza che tale processo possa terminare. (43) La techne viene così a perdere il suo carattere strumentale rispetto alla physis, grazie all’affermarsi della “natura convenzionale” della moneta, aprendo un orizzonte fino ad allora sconosciuto: la moneta, da un lato, perde tutte le sue qualità per essere puro segno di quantità e poter funzionare come “misura”; dall’altro, rende possibile che beni differenti si rapportino reciprocamente traducendosi in termini di pura quantità. I molteplici e differenti beni allora possono essere misurati, dato che ogni cosa può essere ricondotta alla astratta quantità della moneta. Determinando la funzione della moneta, lo Stagirita può svolgere un’analisi, di carattere storico e teorico, che gli consente di mettere in rilievo sia il significato sociale della moneta – in quanto essa media le relazioni tra le cose e gli uomini e di conseguenza i rapporti tra gli uomini – sia che, attraverso il commercio al minuto, si sviluppa una forma di intermediazione, in cui gli estremi non sono i prodotti (come quando, ad esempio, si vende l’olio prodotto, per acquistare grano) ma il denaro stesso (ad esempio, si acquista olio ad un determinato prezzo, per venderlo ad un prezzo maggiore). Perciò, non solo la crematistica non naturale mira ad accumulare una ricchezza illimitata, poiché non appaga bisogni determinati – come accade allorché si possiede per consumare – ma, essendo il possesso di denaro non più un mezzo per conseguire un determinato fine bensì il fine di un processo infinito, il bisogno che alimenta il processo è esso stesso illimitato. Il che per Aristotele non può non essere che “figura” del “negativo”, in quanto l’infinito, secondo lo Stagirita, non è l’intero – che non può essere “trasceso”, che è “inoltrepassabile” – ma al contrario è ciò al di fuori del quale c’è sempre qualcosa, quell’assoluta assenza di limite che anche Aristotele – la cui filosofia privilegia non le “forme geometriche” e i “rapporti numerici”, come quella di Pitagora o quella di Platone (indipendentemente dalla differenza tra enti matematici, cosiddetti “intermedi”, e forme metafisiche pure, le cosiddette “idee numeri”), bensì la “forma” del vivente, l’organismo – non può non considerare un qualcosa di aberrante. (Per i Greci l’infinito non si distingue dall’indefinito, dall’indeterminato, dall’illimitato, per quanto in Plotino assuma una connotazione positiva, dato che indica l’ineusarabile potenza dell’Uno; l’infinito dei Greci corrisponde piutttosto all’infinito che i medievali denominano sincategorematico e che si distingue dall’infinito categorematico, ossia l’Assoluto). Del resto, Aristotele osserva che, se non si riesce a procurarsi la ricchezza mediante la crematistica, si sarà facilmente disposti ad impiegare qualsiasi altro mezzo, poiché l’arricchimento diventa “il fine generale a cui pare debba essere indirizzata ogni cosa”. Nota Ruggiu che per Aristotele «lo spirito della crematistica rischia di impadronirsi di ogni aspetto della società; ogni facoltà naturale o ogni virtù tradizionale, non sono più considerate per sé stesse, in relazione alla propria natura e destinazione, ma in rapporto alla possibile utilizzazione ai fini della acquisizione di ricchezza». (44) In definitiva, Aristotele comprende che, una volta creatosi uno spazio economico autonomo nell’ambito della polis, l’economico tende inevitabilmente a “degenerare”, espandendosi ai danni dell’intero organismo politico e sociale. E ad Aristotele (come già a Platone) non sfugge nemmeno il legame tra talassocrazia e imperialismo economico che (sebbene Atene non fosse governata da “mercanti” e il suo impero fosse solo un impero costiero), (45) trascinando la città verso l’egemonia sul mare, muta la techne polemiké in hybris (fino a pretendere che quest’ultima valga come giusta), porta a macchiarsi di orrrende stragi e a massacrare le popolazioni di tante piccole città (come scrive Senofonte nelle Elleniche, II, 2, 10) e a considerare i propri alleati come schiavi (Costituzione degli Ateniesi XXIV-XXVII). (46) E nella Politica ( VII, 1327a) lo Stagirita denuncia apertamente la “prassi” del mercante che “va per mare” come ciò che si oppone al buon governo, anche se non è più possibile per la polis “chiudersi” al mare. Sicché, se per Platone, la polis deve sorgere lontano dal mare, ma non deve essere priva di porti né di materiale per costruire navi, per Aristotele, bisogna evitare la “tentazione talassocratica” e possedere solo una flotta navale necessaria per uno sviluppo equilibrato.
Com’è noto, dovettero passare non pochi secoli prima che potesse accadere quel che Aristotele temeva. A tale proposito, scrive Edouard Will: «[Nell’antica Grecia] in nessuna branca d’attività la produzione è mai limitata dalla sola preoccupazione della produttività, essendo paralizzata da condizioni arcaiche di natura religiosa e morale: l’idea di un rapporto sacro o naturale fra la terra e il lavoro, fra la capacità dell’artigiano e la qualità del suo lavoro, ha distolto il lavoratore greco dall’idea di dover produrre di più, producendo diversamente». (47) E il motivo per cui dovette passare tanto tempo lo spiega assai bene Costanzo Preve: «Il pensiero classico dei Greci si è storicamente costituito sulla base delle forze distruttive messe in moto dall’apeiron, ove questo apeiron diventi il principio distruttivo della politeia degli uomini, ed il kaos finisca con il distruggere il nomos; questo pensiero si basava essenzialmente su di una visione cosmocentrica unitaria in cui le categorie dell’essere e le categorie del pensiero fanno tutt’uno e sono unificate dalla dialettica intesa in senso ontologico; il pensiero ellenistico nonostante la sua grandezza […] ha disperato di far fronte a questo caos, e ha “ricentrato” il potere della ragione in una comunità di amici (Epicuro) o in una comunità cosmopolitica di dotti (lo stoicismo); il pensiero cristiano ha correttamente mantenuto l’unità delle categorie del pensiero e delle categorie dell’essere […] ma ha prodotto uno sdoppiamento fra l’uomo, il cosmo e Dio che ha finito con il perdere l’unità cosmologica ed umana del mondo dei Greci». (48) Solo con la nascita del mondo moderno si realizzano quelle condizioni che permettono all’economico di scorporarsi dall’ampio ventaglio di istituzioni culturali, sociali e politiche in cui era “incastrato” sino alla fine del Medioevo, e alla funzione economica di rivendicare una supremazia rispetto a quella politica. E non a caso, questo conflitto si manifesta anche, secondo Carl Schmitt, come separazione/conflitto tra terra e mare. (49) Ma con il tramonto del nomos della terra e l’affermarsi della talassocrazia dell’America – che acquisisce pure il dominio dell’aria – ogni mescolanza tra limite ed illimite, tra uno e molti, viene, per così dire, “misurata” dalla dismisura di un sistema che mette al centro «l’arricchimento crematistico infinito e illimitato […] basato sulla hybris di un soggetto assolutizzato e sradicato dalla comunità umana […] che se non trova un qualche un freno sociale e politico (katechon) può portare alla dissoluzione l’intera polis, ed oggi – lo sappiamo – anche l’intera kosmopolis». (50) L’hybris dell’apparato tecnico-produttivo della grande “isola” d’oltreoceano ormai minaccia di travolgere ogni limes, non essendovi più alcun katechon capace di arrestarne l’impeto sradicante. Perfetto “rovesciamento” della misura greca nel proprio opposto, che induce la “vecchia Europa” a indossare la maschera dell’Occidente, per celare la propria ”im-potenza”, ché «l’occidentalismo […] è un concetto ideologico di guerra e di pretesa aprioristica di superiorità». (51). Ma allora come opporsi alla “macchina da guerra” dell’Occidente? Nella radicalità con cui Schmitt critica il “cosmopolitismo” umanitario dell’Occidente (benché, in realtà, si tratti di un “uni-versalismo astratto”, perché l’occidentalismo non può definirsi “cosmo-politismo” né ammette che vi possano essere differenti identità “oltre” quella occidentale) e l’utopia di un “ordine mondiale” basato sulle cosiddette “leggi del mercato”, si deve ravvisare la demistificazione di una morale affatto diversa dall’ethos dei Greci, che, esattamente come mos per i Romani, denota non comportamenti soggettivi, ma l’abitare, la radice cui ogni uomo appartiene. Nessun “narcisismo comunitario” tuttavia può realisticamente svolgere la funzione del katechon. Né si può dimenticare che proprio i Greci, perché non seppero dar vita ad un ordinamento politico panellenico, finirono con l’essere dominati dallo straniero. (52) Si dovrebbe piuttosto riconoscere che solo all’interno di quelle entità politiche che Schmitt denomina “grandi spazi” è possibile difendere il senso di appartenenza e “frenare” la barbarie della società di mercato, quando perfino i limiti degli Stati nazione e i loro mercati interni mostrano di essere troppo piccoli. I Greci insegnano che necessario è “misurare” l’illimitato, (53) non che sia necessaria una “particolare misura”, che, in quanto prodotta dagli uomini, non può non cambiare con il variare delle circostanze storiche. E la questione di un nuovo inizio politico non può non presentarsi nel nostro tempo diversamente che nel tempo antico. Per questo, Schmitt pensa ai “grandi spazi” come alternativa all’occidentalismo e come garanzia delle differenze storiche, sociali e culturali. Diverse “iconografie”, diverse tradizioni, diverse lingue, diverse culture, diversi costumi e finanche diverse comunità politiche possono “co-esistere” come parti di un intero. Se è vero, come sostiene Cacciari, che «sta nella natura d’Europa sapersi come parte [e che perciò ] mai potrà identificarsi con Dike, con quell’universale Giustizia per cui anche Europa e Asia provengono dallo stesso e nello stesso si risolveranno», (54) è anche vero che l’unità spirituale dell’Eurasia è un unità in sé differenziata. In nessun modo si può “ri-produrre” l’immediata unità dell’Europa e dell’Asia e rendere reversibile lo sviluppo storico, ma è la stessa idea di Dike, di “giusta misura”, che “in-formava” il mondo dei Greci, ad “in-formare”, sia pure sempre più debolmente, l’identità dell’homo europaeus, che vuole prendersi cura della propria radice terranea, non per tornare all’inizio, ma per poter dare inizio ad nuovo nomos insieme con gli altri popoli dell’Eurasia, con i quali “con-divide” la medesima terra.

NOTE

1) A. de Benoist, Il liberalismo contro le identità collettive, in A. de Benoist, Le sfide della postmodernità, Arianna, Casalecchio (Bo), 2003, p. 70.
2) F. A. von Hayek, The Fatal Conceit. The Errors of Socialism, Routledge, Londra, 1988.
3) F. A. von Hayek, Legge, legislazione, libertà, Il Saggiatore, Milano, 1986, p. 559. La critica, affatto condivisibile, di un certo storicismo hegelo-marxista pare così sfociare in una sorta di “metafisica economicistica” ingenua e “volgare”.
4) L. Dumont, Homo aequalis I. Genesi e trionfo dell’ideologia economica, Adelphi, Milano, 1984, p. 21.
5) (A cura di) L. Ruggiu, Genesi dello spazio economico, Guida, Napoli, 1982. pp.8-9.
6) Ibidem, p. 9.
7) Vedi, per l’antica Atene, K. Polanyi, Trattazione comparata delle istituzioni economiche, in K. Polanyi (a cura di), Economie primitive, arcaiche e moderne, Einaudi, Torino, 1980. Per l’avvento della società di mercato, vedi K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974.
8 ) J. Dalton, introduzione a K.Polanyi, op.cit., p. XIV.
9) F. A. von Hayek, Verso la schiavitù, Rizzoli, Milano, 1948, p. 3.
10) P. Rosanvallon, Le libéralisme économique, Seuil, Parigi, 1987, p.124, citato in A. de Benoist, op. cit., p.84.
11 ) Ibidem, p. 80.
12) C. Schmitt, Un giurista davanti a sé stesso, (intervista di F. Lanchester) , in «Quaderni costituzionali», 1983, n. 1, pp. 5-34.
13). C. Schmitt, Le categorie del politico. Saggi di teoria politica, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 13.
14) A. de Benoist, Ripensare la guerra. Dallo scontro cavalleresco allo sterminio di massa, coll. «Quaderni», 1, Asefi-Terziaria, Milano 1999, p. 21. De Benoist ricorda anche che secondo Martin van Creveld «ufficialmente, l’annientamento delle popolazioni civili [nella Seconda guerra mondiale] era giustificato dalla loro malvagità. In realtà quelle popolazioni dovevano essere dichiarate malvagie per giustificarne l’annientamento per mezzo di ordigni ad effetto di massa» (Ibidem, p. 31, nota 15). Si noti che è sullo jus publibicun europaeum che si basa la famosa critica di Hegel del progetto kantiano di pace universale: «Anche nella guerra come situazione giuridica, di violenza e di contingenza, sussiste un legame nel fatto che gli Stati si riconoscono vicendevolmente pari. In questo legame essi valgono l’uno per l’altro come esistenti in sé e per sé, a tal punto che, nella stessa guerra, si dispone che essa debba essere passeggera. Essa implica dunque questo carattere conforme al diritto delle genti, così che anche in essa la possibilità della pace è preservata» (G.F.W. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari, 1979, par. 338, p. 327).
15) C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “Jus publicum europaeum”, Adelphi, Milano, 1991, p. 19. Sul nomos della terra, vedi pure C. Schmitt, Terra e Mare, Adelphi, Milano, 2002 e C. Schmitt, Appropriazione, produzione, divisione. Il tentativo di fissare correttamente i fondamenti di ogni ordinamento economico-sociale a partire dal “nomos”, in C.Schmitt, Le categorie del politico, Saggi di teoria politica, cit., pp. 293-312.
16) Nomos deriva da nemein, che significa ” stabilire”, “spartire”, “dividere”. Per Schmitt, diversamente da Benveniste, però è prioritario il significato di “appropriazione”, “conquista” (vedi A. Jellamo, Il cammino di Dike: l’idea di giustizia da Omero a Eschilo, Donzelli Editore, Roma, 2005. p. 85, nota 19 (la Jellamo ricorda pure che «l’intraducibilità del termine nomos, la complessità della parola e del concetto nella cultura greca, sono state sottolineate con particolare efficacia da K. Kerenyi [in] La religione antica nelle sue linee fondamentali, Zanichelli, Bologna, 1940, pp.68-69», Ibidem, p. 85, nota 20).
17) C. Schmitt, Terra e mare, cit., p. 73-74.
18) M. Heidegger, Costruire, abitare, pensare, in M. Heidegger, Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 2006, pp. 96-108.
19) K. Löwith, Il decisionismo occasionale di Carl Schmitt, in K.Löwith, Marx, Weber, Schmitt, Laterza, Bari 1994, pp.125-166.
20) Ibidem, p. 137 e p. 148.
21) Vedi M. Heidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in M. Heidegger, Tempo e Essere, Longanesi, Milano, 2007, pp. 73-94.
22) G.A.Di Marco, Thomas Hobbes nel decisionismo giuridico di Carl Schmitt, Guida Editore, Napoli, 1999, pp. 536-537.
23) Ibidem, p. 537
24) Vedi, oltre al “classico” M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Borla, Roma, 1989, K. Kerényi, introduzione a C.G. Jung e K. Kérenyi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Boringhieri, Torino, 1972, pp. 24 e ss., e J. Rykwert, L’idea di città, Adelphi, Milano, 2002.
25) V. Meattini, L’orizzonte etico e politico di Platone, Vigo Cursi, Pisa, 1984, p. 19.
26) Ibidem, p. 20.
27) M.Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, Adelphi, Milano, 1994, pp. 29 e 31.
28) Vedi G. Colli, Filosofi sovrumani, Adelphi, Milano, 2003, e G. Colli, Platone politico, Adelphi, Milano, 2007.
29) Eraclito 14 [A 19] – secondo la numerazione di Diels-Kranz: 22B53 DK – in G. Colli, La sapienza greca, III, Adelphi, Milano, 1980, p. 35.
30) M.Heidegger, Il detto di Ansassimandro, in M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1984, p. 308 (per la traduzione del frammento, Ibidem, p.299).
31) A. Iellamo, op. cit., p. 84.
32) Così Colli, di cui vedi Zenone di Elea, Adelphi, Milano, 1998 e Gorgia e Parmenide, Adelphi, Milano, 2003.
33) M.Cacciari, op. cit., p. 38.
34) Ibidem, p. 32.
35) Si può affermare che, per Colli, in un certo senso, Platone è l’ultimo “sapiente” greco e il padre della “filo-sofia” europea. Per questo giudizio vedi G. Colli, La natura ama nascondersi, Adelphi, Milano,1998, specialmente pp. 259-329.
36) Fondamentale, al riguardo, G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Vita e pensiero, Milano, 2003.
37) M.Cacciari, op. cit., pp. 40-41.
38) M. Vegetti, Il problema della giustizia nella Repubblica di Platone, in (a cura di) G. M. Chiodi e R. Gatti, La filosofia politica di Platone, Franco Angeli, Milano, 2008, p. 34.
39) G. Colli, Platone politico, cit., p. 129.
40) Ibidem, p. 130.
41) G. Reale, Storia della filosofia antica ,V, Vita e pensiero, Milano, 1989, p. 218.
42) M.Cacciari, op. cit., pp. 30-31.
43) Vedi L. Ruggiu, Aristotele e la genesi dello spazio economico, in (a cura di) L. Ruggiu, op. cit., in particolare pp. 85 e ss.
44) Ibidem, p. 110.
45) Vedi K. Polanyi, Trattazione comparata delle istituzioni economiche, cit., e K.Polanyi, Aristotele scopre l’economia, in (a cura di) K. Polanyi, Traffici e mercati negli antichi imperi, Einaudi, Torino, pp. 75-113.
46) Vedi M. Cacciari, op. cit., pp. 48 e ss.
47) Citato in L.Ruggiu, Aristotele e la genesi dello spazio economico, cit., p. 62, nota 52. Com’è ovvio, le considerazioni di Will valgono per qualsiasi società precapitalistica.
48) C. Preve, La saggezza dei Greci, Una proposta interpretativa radicale per sostenere l’attualità dei Greci oggi, http://www.petiteplaisance.it/ebooks/1081-1100/1096/el_1096.pdf, pp. 23-24.
49) Vedi Carl Schmitt, Terra e mare, cit., in cui Schmitt analizza lo scontro tra Landmächte e Seemächte.
50) C. Preve, Il saggio di Gianluca Grecchi “Occidente: radici, essenza, futuro”. Un convincente esercizio di filosofia della storia, http://www.petiteplaisance.it/ebooks/1081-1100/1094/el_1094.pdf, p. 17. Preve ritiene necessaria una deduzione sociale delle categorie dei Presocratici, pur ammettendo che «in questo modo si possono anche fare gravi errori di interpretazione» (Ibidem, pp. 17-18). Ma non è proprio il nesso strettissimo tra “sapienza” e politico e il fatto che la prima è a fondamento del politico a caratterizzare anche il Platone politico, come dimostrano gli studi del giovane Colli? (vedi, oltre alle opere già citate, anche G. Colli, Filosofi sovrumani, Adelphi, Milano, 2003). Si tenga comunque conto che, se prima della sofistica non vi è una vera distinzione tra “natura” e comunità degli uomini, allora è impossibile che «la physis di Eraclito [sia] semplicemente la metafora delle contraddizioni della polis di Efeso» (Ibidem, p. 17), benché il “significato sapienziale” della physis possa concernere anche la sfera del politico.
51) Ibidem, p. 16.
52) Se Aristotele è “cieco” di fronte all’emergere dell’impero macedone, Luigi Alfieri si domanda – in L. Alfieri, Platone Realpolitiker?, in (a cura di) M.A.Chiodi e R. Gatti, op. cit. – se Platone «non sia stato l’unico pensatore politico greco capace di anticipare precisamente lo sfociare della polis nella monarchia universale ellenistica e poi romana» (Ibidem, p. 70). Platone mira indubbiamente ad una metanoia, ma è altresì convinto che ciò non si possa avverare senza il sostegno di una “potenza” (Siracusa, ad esempio) che abbia interesse ad instaurare un “nuovo ordine”.
53) Per Schmitt (non diversamente da Heidegger o da Severino) non è più l’economico ma la tecnica “scatenata” il centro di riferimento intorno al quale si organizza la società occidentale. Basandosi sulla filosofia platonica e sull’analisi aristotelica della crematistica si potrebbe però pensare che la tecnica – ma solo in quanto autoreferenziale, in quanto cioè “volontà” che ha come scopo il potenziamento illimitato della propria potenza – non sia altro da quella “volontà di potenza” che contraddistingue l’economico nel suo divenire storico, bensì ne sia invece l’espressione più matura e compiuta. Con ciò non s’intende tanto difendere le “ragioni” della decrescita, quanto piuttosto rilevare che “im-porre una forma” all’apparato tecnico-produttivo non è un’utopia, ma una sfida, che si dovrebbe affrontare senza illudersi, come coloro che volevano opporre la cavalleria ai mezzi corazzati, ma anche senza sottovalutare che proprio l’arte e la storia militare provano che vi sono differenti “forme di potenza” e differenti criteri per “misurarle”.
54) M. Cacciari, Ibidem, p. 23.



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