Come diceva Fernand Braudel nel suo saggio “Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni” il Mediterraneo è “mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una cultura, ma una serie di culture accatastate le une sulle altre”, ma negli ultimi decenni è divenuto anche il centro di un insieme altrettanto complesso di politiche di cooperazione, parternariati ed ipoteti-che unioni. La recente crisi mediorientale sta incidendo e inciderà sul progetto di “Union pour la Méditerranée”: Quale futuro è lecito aspettarsi per l’UpM?
Introduzione
Mentre al Il Cairo l’ottavo giorno di rivolte contro il regime di Mubarak vedeva per le strade più di un milione di persone; mentre Tunisi si preparava al dopo Ben Al, mentre ad Amman re Abdullah di Giordania destituiva il primo ministro Samir Rifai a favore dell’ex generale Marouf Bakhit accettando così il volere della piazza, mentre in Algeria ed in Libano si vivevano giorni di grande tensione, insomma mentre il mediterraneo vedeva in atto un mutamento politico senza precedenti, a Barcellona il Segretario Generale dell’UpM Ahmad Khalef Masadeh, in carica da soltanto un anno, ha rassegnato le sue dimissioni.
Ufficialmente il giordano Ahmad Khalef Masadeh ha lasciato il suo ruolo in quanto sono mutate le condizioni generali che nel gennaio 2010 lo avevano spinto ad accettare l’incarico; in particolare il primo Segretario dell’UpM si riferisce alla scarsità delle risorse finanziarie, infatti a fronte di una richiesta ai Paesi membri pari a 14,5 milioni di euro la neonata organizzazione avrebbe ricevuto meno della metà di quanto chiesto.
In ogni caso risulta ingenuo slegare le dimissioni dalla crisi contingente del Maghreb. Da un lato i cambiamenti che percorrono la sponda sud rischiano di incrinare i già instabili equilibri dell’UpM (Mubarack è vice-presidente dell’organizzazione); dall’altro la mancata risposta alla richiesta di risorse da parte dell’organizzazione sottolinea una volta di più il disinteresse degli Stati europei per uno strumento che più di tutti poteva e potrebbe ancora avvicinare le due sponde ed incidere nelle politiche interne dei Paesi arabi (in materia di diritti civili, democrazia e liberalizzazioni economiche).
Tuttavia la debolezza dell’UpM non è una novità, ma anzi è insita nella storia che la ha originata e che dunque è il caso di riassumere.
Prologo: l’origine dell’UpM
Le relazioni più o meno amichevoli tra la sponda nord e quella sud del bacino mediterraneo sono un elemento di continuità nella storia del continente Europeo, infatti, fin dall’accordo di Roma del 1957, l’allora CEE (Comunità Economica Europea) ha dovuto fare i conti con i Paesi mediterranei.
Le prime relazioni sono state strette dalla neonata Comunità con le ex-colonie transalpine Marocco, Tunisia e Algeria (quest’ultima ancora dipartimento francese), quindi nel dicembre 1964 la CEE ha sottoscritto accordi di associazione miranti a stabilire un’unione doganale con Atene e Istambul, poi nel corso degli anni ’70 è stata la volta di Malta e Cipro ed infine la Comunità ha concluso accordi commerciali e di cooperazione tecnica con Libano, Spagna, Portogallo, Israele, Egitto e Yugoslavia.
Tuttavia, fino ai primi anni ’70, tutte le relazioni intessute dalla CEE con i Paesi bagnati dal mar mediterraneo si erano sviluppate sottoforma di accordi bilaterali di natura prettamente commerciale. Un approccio complessivo alle problematiche della regione da parte della Comunità europea prese forma soltanto con il Vertice di Parigi del 1972 sotto il nome di Politica Mediterranea Globale (PMG). Con la PMG i Paesi europei intendevano perseguire l’equilibrio socio-economico della regione attraverso una rete di accordi di natura multisettoriale; rete che ha coinvolto i Paesi del Magreb (ad esclusione della Libia), del Machrek, la Grecia e la Turchia. Malgrado le buone intenzioni dimostrate dai Paesi europei la PMG naufragò sotto il peso, da un lato, della crisi petrolifera e, dall’altro, delle pretese protezionistiche comunitarie per i settori agricolo e tessile; così il divario tra la sponda nord e la sponda sud al sorgere degli anni ’90 rimaneva ancora incolmato.
Per queste ragioni, a cui vanno sommate, da un lato, la fine della divisione del mondo in est-ovest e, dall’altro, l’entrata nella CEE rispettivamente di Grecia, Portogallo e Spagna, nel 1989 la Comunità degli Stati europei varò la Politica Mediterranea Rinnovata (PMR). Tuttavia anche la PMR, nonostante lo sviluppo della cooperazione decentrata, l’espansione di collaborazioni in diversi campi (università, innovazione, PMI) ed il sostegno finanziario alle riforme strutturali dei paesi terzi, mostrò subito i propri limiti: l’incapacità di superare l’approccio basato sugli accordi bilaterali e l’inefficacia nel diminuire le differenze socio-economiche tra le due rive.
Quindi fin dal 1992 la CEE, che nel frattempo si stava preparando a divenire UE, iniziò ad immaginare un Partenariato Euro-Mediterraneo (PEM); PEM che fu lanciato ufficialmente con la Conferenza di Barcellona del 1995 dove i 15 Paesi europei insieme a 12 Paesi Mediterranei (Algeria, Cipro, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Malta, Marocco, Siria, Tunisia, Turchia e l’Autorità Palestinese) si impegnarono a costruire un vero e proprio partenariato per l’anno 2010. L’impegno comportava, oltre ad un’azione coordinata nella lotta al terrorismo, criminalità e mercato della droga e alla cooperazione a favore del dialogo inter-culturale e inter-religioso e del controllo dell’immigrazione clandestina, la creazione di una zona di libero scambio a fronte di un aiuto economico finanziario in direzione nord-sud. Tuttavia a causa della seconda intifada e dell’11 Settembre anche quest’ultimo programma di integrazione non prese mai il volo.
Ultimo atto delle relazioni euromediterranee: la Conferenza di Parigi del 2008, dove il neoeletto presiden-te francese Sarkozy cercò di rilanciare il progetto di cooperazione tra le due sponde attraverso l’Unione per il Mediterraneo (UpM) composta da: Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Marocco, Mauritania, Principato di Monaco, Montenegro, Autorità Nazionale Palestine-se, Siria, Tunisia, Turchia e dai Paesi membri dell’UE.
L’UpM, fondata su un approccio più pratico, avrebbe dovuto portare innanzi progetti concreti quali: la di-minuzione dell’inquinamento nel mar mediterraneo, la formazione delle c.d. autostrade del mare (intensi-ficazione del network tra i porti mediterranei e miglioramento delle vie di trasporto su terra), l’istituzione di un corpo di protezione civile comune, un piano di sviluppo dell’energia solare, la creazione di un’Università Euro-Mediterranea e iniziative finanziarie e non a favore delle PMI.
Tuttavia anche questo tentativo nato tra i migliori auspici sembra tramontare in seguito a diverse difficol-tà, ultima la crisi di questi giorni, e alle dimissioni del segretario generale Ahmad Khalef Masadeh.
Scenari: il futuro dell’UpM
Per poter tratteggiare i possibili scenari futuri dell’organizzazione euro-mediterranea è necessario innanzitutto individuare le variabili incidenti. In merito all’UpM le incognite sono disparate e numerose: il conflitto palestinese-israeliano, i rapporti Cypro-Turchia e le relazione UE-NATO, la forza politica di Sarkozy e molte altre. Al fine della nostra analisi, però, ci interessa comprendere il legame tra la crisi del Maghreb ed in particolare egiziana, essendo il Paese dei faraoni la chiave geopolitica della regione, ed il futuro dell’organizzazione euro-mediterranea, di conseguenza terremo conto in maniera marginale degli altri fattori.
STATUS QUO (0%)
Il primo scenario, ossia che il regime continui a mantenere il potere, è ormai inattuale. Infatti, le possibilità che Mubarack o suo figlio Gamal possano ricandidarsi alle prossime elezioni sono ormai azzerate in seguito alle dichiarazioni del presidente stesso e al recente accordo per un piano di riforme tra opposizione e il neo nominato vice-presidente Omar Sulemain.
INERZIALE (50%)
L’ipotesi più probabile è che fatta fuori la dinastia familiare dei Mubarck rimanga invariato il potere dei militari e di conseguenza possano essere loro a guidare il Paese. Attualmente i militari godono, innanzitutto, del rispetto della popolazione: sono infatti considerati come la meno corrotta delle istituzioni statali. In secondo luogo essi hanno un peso economico senza pari: il settore “privato” del Ministero della difesa ha un profitto di 345 milioni di dollari annui, senza contare che sempre i militari sono i diretti beneficiari degli aiuti USA (in questo campo l’Egitto è secondo solo a Israele). Infine in questa crisi, essi si sono rafforzati anche dal punto di vista politico: Omar Sulemain ex capo dei servizi segreti è emerso come uomo forte in grado di mediare tra regime ed opposizione.
Senza dubbio i militari partono favoriti per guidare l’Egitto del futuro; questo, se garantirà la continuità dei rapporti con Israele, certamente non contribuirà a migliorare le relazioni con l’Algeria (altro Paese partner dell’Unione). Inoltre se questo scenario si avverasse, l’esigenza principale dell’establishment militare diventerebbe la stabilità, mentre le riforme liberalizzatrici non sarebbero di certo all’ordine del giorno.
Con i militari al potere il futuro per l’UpM non appare più roseo di quanto lo sia al momento; è immaginabile che l’Egitto parteciperebbe ad un nuovo rilancio dell’organizzazione senza però dare un contributo fondamentale, il che fa prevedere che anche una nuova iniziativa possa finire nel nulla come le precedenti.
INNOVATIVO VOLONTARIO (25%)
Il caso che il malcontento della piazza verso il passato regime sia in grado di portare al governo con posizione di reale forza una coalizione riformatrice guidata dall’ex premio nobel El Baradei lascia perplessi in quanto è difficile comprendere la reale presa del diplomatico egiziano. In ogni caso se questo scenario si avverasse riforme liberali e democratiche passerebbero all’ordine del giorno e l’asse Il Cairo – Tunisi potrebbe davvero portare ad un effetto domino regionale (una sorta di “freedom agenda” post litteram).
Questa possibilità incrementerebbe le chance di riuscita dell’UpM poiché da un lato democrazia e libero mercato potrebbero facilitare l’integrazione e dall’altro El Baradei, malvisto a Washington per la sua pregiudiziale anti-USA, non potrebbe che cercare una sponda Europea per la sua politica estera.
INNOVATIVO DI ROTTURA (25%)
Infine deve essere presa in considerazione l’ipotesi che, in seguito alla nomina di un governo debole e non in grado di reagire alla crisi economica e politica, prendano il potere attraverso nuove elezioni o accordi di governo i fratelli musulmani, ossia la forza più organizzata e presente nel contesto sociale egiziano. Tuttavia, malgrado molti analisti occidentali considerano questo scenario come invitabile portando come motivazione il caso di Hamas (emanazione della fratellanza in Palestina), in realtà la situazione egiziana è più comparabile con quella giordana dove i Fratelli Musulmani sono presenti come forza politica di minoranza (con una quota elettorale pari al 20%).
La fratellanza di ispirazione islamista (l’organizzazione prevede la democrazia come mezzo e la sharia come fine) non potrebbe che incrinare le relazioni con Israele, da un lato, e con i regimi laici della regione, dall’altro. Questo scenario metterebbe la parola fine a qualsiasi progetto di UpM e avrebbe in generale pesanti ripercussioni in tutto il MO.
Conclusioni
Dagli scenari appena tratteggiati l’UpM sembra non poter contare su una spinta proveniente da Sud per rilanciare il proprio progetto: sia nel caso di un governo di ispirazione “militare”, sia nel caso della presa del potere da parte della fratellanza l’organizzazione euro-mediterranea sembra avere poche chance di riuscita. Soltanto nel caso dell’elezione a presidente di El Baradei il futuro dell’UpM sembra più roseo.
Tuttavia il modello appena analizzato non tiene conto di una possibile iniziativa europea, anche se questa necessiterebbe di un’unità di intenti e di uno sforzo finanziario che al momento l’UE non sembra poter garantire.
L’ipotesi più probabile è che con la ripresa economica nell’arco di uno o due anni il progetto possa essere rilanciato per continuare la sua storia di eterna Fenice che continuamente risorge, ma che continuamente finisce in cenere.
*Stefano Alberzoni ha svolto i suoi studi, prima, presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano dove nel 2010 si è laureato in Relazioni Internazionali con una tesi sulla riforma del FMI e la “global governance”, e poi, presso l’Alta Scuola d’Impresa e Società dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Le sue aree di interesse sono la politica di cooperazione euro-mediterranea, la determinazione dell’interesse nazionale, il commercio estero e l’ internazionalizzazione d’impresa.
Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”