Il 25 gennaio scorso il presidente americano Barack Obama ha pronunciato il consueto discorso d’inizio anno sullo stato dell’Unione.
Come sempre, i media di casa nostra ne hanno riportato soltanto alcuni brani: per il testo integrale non resta che ricorrere ai media americani [http://abcnews.go.com/story?id=12759395], e pazienza per chi non è anglofono.
Che gli Stati Uniti si stiano avviando verso il declino non è una novità: da tempo analisti e osservatori spiano i segni della caduta, e non sempre sine ira et studio. La novità, invece, sta nel fatto che stavolta, nel suo discorso, Obama insiste su due punti solitamente presenti nelle argomentazioni presidenziali di ogni amministrazione: ma lo fa con una sfumatura che, diversamente dal solito, denuncia preoccupazione e incertezza.
Precisamente, Obama prende atto dei cambiamenti a livello planetario: “That world has changed”, “the change has been painful”, “the rules have been changed”, “the rules have changed”, “some changes”, “the world has changed”, “would you change about the world”, “innovation doesn’t just change our lives”; e suggerisce che il futuro sarà degli Usa se gli Usa sapranno conquistarselo: “to win the future”, “The future is ours to win”, “The future is not a gift”.
Dunque, con la ripetizione del concetto che “il mondo e le regole sono cambiati” e che “il futuro non è un regalo”, sembra che gli Usa debbano ammettere — al di là di ogni ragionevole dubbio — che la situazione interna ed estera non è più sotto controllo. E questa del controllo è quasi un’ossessione per gli Stati Uniti, come ben dimostra il caso dell’analista Samuel Huntington e della sua teoria sul clash of civilizations.
Una divagazione
Naturalmente sappiamo che il modello dello “scontro di civiltà” proposto da Huntington è fondamentalmente errato. Benché dotata di fascino, questa prospettiva si rivela inadeguata a una lettura interpretativa degli avvenimenti nella loro nudità: infatti, se è vero che Huntington colloca un concetto ampio e onnicomprensivo come quello di “cultura” al centro della sua elaborazione, è tanto più vero che la sua concezione di “cultura come civiltà” si rivela scorretta oltre che riduttiva. Nella sua visione, le civiltà appaiono caratterizzate da criteri razziali, geografici e confessionali assunti quasi in senso fisico, come se fossero antemurali eretti a estrema difesa da un’invasione. In realtà, questa proiezione (la quale sembra rivelare più un malcelato timore o un’inconfessata speranza che non una lucida disamina del reale) non contempla neppure lontanamente l’aspetto basilare dell’interazione complessiva tra le diverse civiltà, presente a livello altissimo nel mondo del post-1945: anzi, escludendo il peso della storia dall’approccio al problema per limitarsi a un’analisi meramente geografica, essa ignora totalmente la dimensione geopolitica — rivelatasi negli ultimi anni l’unica in grado di offrire validi strumenti di comprensione dei mutevoli scenari internazionali.
L’appiattimento della cultura/civiltà su un piano, per così dire, orizzontale che non tiene conto della profondità storica porta inevitabilmente a una pericolosa riduzione del problema: religione, cultura locale e razza non figurano più come elementi armonicamente costitutivi della civiltà nella sua connotazione pluridimensionale, ma si sovrappongono confusamente aprendo la strada ad un’errata percezione delle identità sulla base della volgarizzazione criminogena cara a tutti i fondamentalismi. Si pensi, solo per restare a un passato recente, all’attacco sferrato dall’amministrazione Bush contro l’Afghanistan in seguito all’identificazione di un intero territorio con una semplice ideologia (il meccanismo è praticamente identico a quello che durante la seconda guerra mondiale portò a identificare un intero popolo, quello tedesco, con il regime nazionalsocialista che in quel momento vigeva in Germania: si potrebbe discettare a lungo sull’inquietante facilità con cui un’aggregazione umana recente e déracinée come gli Stati Uniti d’America incappa in simili “errori” di valutazione, ma il discorso porterebbe lontano).
Vale la pena di riportare un significativo brano del testo (Samuel Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti 1997, p. 27):
Modelli o cartine semplificate sono indispensabili per il pensiero e le azioni dell’uomo. Possiamo scegliere di esplicitare tali teorie o modelli e usarli come guide di comportamento, oppure possiamo negare la necessità di tali guide e ritenere di poter agire esclusivamente sulla base di specifici fatti “oggettivi”, di entrare “nel merito” di ogni singolo caso. Presumere di poter fare questo, tuttavia, significa semplicemente ingannare se stessi. Nel fondo della nostra mente, infatti, covano pregiudizi, preconcetti e opinioni che determinano il nostro modo di percepire la realtà, di preselezionare i fatti che attraggono la nostra attenzione e il modo di giudicarne il merito e la sostanza. Abbiamo bisogno di modelli espliciti o impliciti che ci consentano di:
1. ordinare e creare delle generalizzazioni in merito alla realtà che ci circonda;
2. comprendere le relazioni causali tra i fenomeni;
3. capire in anticipo e, se siamo fortunati, preannunziare gli sviluppi futuri;
4. discernere cosa è importante da cosa non lo è;
5. comprendere quale strada seguire per conseguire i nostri obiettivi.
Curiosamente, nel momento in cui denuncia il condizionamento di “pregiudizi, preconcetti e opinioni”, Huntington dichiara la necessità di disporre di “modelli espliciti o impliciti” senza precisare come sarebbe possibile ottenere tali modelli senza lasciarsi fuorviare, nella loro elaborazione, da quegli stessi “pregiudizi, preconcetti e opinioni” che ci impediscono di osservare i fatti in modo autenticamente asettico. Ma la mappa non è il territorio: e, confondendo descrittività con prescrittività, Huntington cade anch’egli preda dell’illusione previsionale evidenziando l’ossessione del controllo che è la cifra della politica estera statunitense.
Verso un’altra America
Ma torniamo a Barack Obama e al suo discorso. In realtà è nella natura delle cose che il mondo continui a cambiare: possiamo individuare e ricordare qualche data più rilevante delle altre — il 1989, il 2001…— ma in buona sostanza il processo planetario di liquefazione (nel senso che al termine dà Zygmunt Bauman) non si arresta mai.
L’America, sembra dire Obama, deve prenderne atto, e accantonare la convinzione — che ormai appare infondata — di saper sempre e comunque gestire al meglio le congiunture interne e quelle estere, come se gli Usa potessero essere in eterno l’ago della bilancia planetaria. E ad avvalorare questa lettura si aggiunge la nuova concezione di “futuro” che emerge dal discorso presidenziale, e che rappresenta il punto d’arrivo di un’evoluzione durata dieci anni: quando, nel 2000, G.W. Bush arrivò fortunosamente alla Casa Bianca, nella sua amministrazione confluirono parecchi esponenti del PNAC – Project for a New American Century, l’istituto di ricerca nato nella primavera 1997 come organizzazione non profit con lo scopo di promuovere “la leadership globale americana” nel XXI secolo.
L’orientamento di Bush jr. si manterrà fortemente propositivo e ottimista anche dopo gli eventi dell’11 settembre, a onta dei dati che ovunque nel mondo sembravano contraddire le convinzioni presidenziali: nel discorso sullo stato dell’Unione del 29 gennaio 2002, G.W. Bush parlava del futuro soltanto in relazione ad una pianificazione americana in campo economico che tenesse nel debito conto l’aggravio fiscale determinato dall’aver intrapreso la guerra contro “l’asse del Male” (“It costs a lot to fight this war”); nel 2003, la preoccupazione è per il futuro degli sventurati paesi condannati a vivere sotto la minaccia del terrorismo (“A future lived at the mercy of terrible threats is no peace at all”); nel 2004, i grandi cambiamenti in atto (“We are living in a time of great change — in our world, in our economy, in science and medicine”) hanno una connotazione positiva, e il futuro non rappresenta un problema; nel 2005, l’obiettivo è costruire prosperità per le generazioni future (“To build the prosperity of future generations”); nel 2006, il punto centrale è la sicurezza futura dell’America, che dipende dall’eliminazione della tirannia nel mondo (“We seek the end of tyranny in our world”); nel 2007, il futuro è scontatamente di speranza e di opportunità per gli americani (“A future of hope and opportunity”); nel 2008, la saldezza della nazione sotto Dio è fuori discussione, e l’intento è di far progredire l’America (“To keep America competitive into the future, we must trust in the skill of our scientists and engineers”).
Con Obama, il cambiamento di tono è radicale: dalle certezze, vere o presunte che siano, si passa alla speranza ovvero allo sforzo di garantire agli Stati Uniti un futuro degno di questo nome. Nel discorso inaugurale del 20 gennaio 2009, l’attenzione è puntata sul presente: un presente di crisi, paura e preoccupazione per l’America e per il mondo (“That we are in the midst of crisis is now well understood. Our nation is at war, against a far-reaching network of violence and hatred. Our economy is badly weakened […]. Homes have been lost; jobs shed; businesses shuttered. Our health care is too costly; our schools fail too many; and each day brings further evidence that the ways we use energy strengthen our adversaries and threaten our planet”), e il presidente ammonisce il paese che le sfide da affrontare, e i mezzi per farlo, saranno diversi dalle precedenti (“Our challenges may be new. The instruments with which we meet them may be new”); nel discorso sullo stato dell’Unione del 2010, il primo presidente americano di colore si dichiara “speranzoso” sul futuro del paese: e chiama a raccolta the People in difesa della nazione e per costruire un futuro che sia “ricco di speranza” (“Let’s leave behind the fear and division, and do what it takes to defend our nation and forge a more hopeful future — for America and for the world”); nel discorso del 2011, abbiamo visto com’è andata.
L’America, dunque, prosegue il suo cammino sul viale del tramonto, ed è in buona compagnia: il sistema occidentale mostra la corda da tempo, ma l’ammissione dell’esistenza di crepe significative nell’edificio che sembrava incrollabile e destinato a reggere indefinitamente le sorti del pianeta segna un momento importante per gli Stati Uniti d’America, anche in relazione ai loro rapporti col resto del mondo. Al di là dei giudizi e delle opinioni su Barack Obama, è indubbio che il quarantaquattresimo presidente si sia trovato a raccogliere un’eredità assai scomoda, frutto delle mattane del suo predecessore e di quella che, probabilmente, è stata la peggior gestione in assoluto della storia americana. Non sappiamo se il XXI secolo sarà il nuovo secolo americano. Di sicuro sarà il secolo di un’altra America — assai diversa da quella che il mondo ha conosciuto finora. Saprà, il mondo, accettare la sfida e cogliere quest’occasione?
13 febbraio 2011